PEPPE DETTO CHIANGI
Racconto di Lucio Causo
Il sole ghignò e scomparve dietro la piccola collina che lambiva ad occidente il paesetto bianco e tozzo. Le campane annunziarono il vespro con lenti tocchi. Svolazzando un corvo raggiunse la vetta del campanile e vi si appollaiò.
Con passo lento, un vecchietto discese incerto la breve scalinata della Chiesa, poggiandosi su un nodoso bastone. La sua testa calva, pur conservando torno torno, all’altezza delle tempie, una candida corona di capelli, gli conferiva una certa somiglianza col Cristo incoronato di spine. Il viso scarno e legnoso era segnato da due occhietti vispi, in tale dimestichezza col pianto che serbavano, ormai costante, una languida lucentezza. Il resto della persona, lunga ed ossuta, rivestita di vecchi stracci, gli conferiva piuttosto le sembianze di un misero mendicante.
Tutti in paese conoscevano Peppe, soprannominato Chiangi per quella sua mania di recarsi in Chiesa, ogni qualvolta le campane suonavano a morto, a pregare piangendo pel defunto, chiunque esso fosse, anche se a lui completamente sconosciuto. Era una fissazione come un’altra ! E forse per questa facile pietà pei dolori del prossimo tutti, al paese, gli volevano bene. E Peppe era grato a tutti di quella benevolenza, a tutti meno che ai bambini, i soli a tormentarlo nella loro innocente inclemenza. E soffriva Peppe nel vedersi così maltrattato proprio dai bambini che tanto gli piacevano. Eppure, per quanto avesse fatto, non era mai riuscito a capire da che dipendesse la repulsione che involontariamente suscitava in loro e sopportava, ormai, rassegnato, le loro birbonate. Come avrebbe desiderato che tutti quei monelli, invece di attenderlo puntualmente all’uscita della Chiesa, per farne il loro bersaglio preferito di ciottoli, beffe e crudeli motteggi, si accoccolassero attorno a lui e lo divertissero con giuochi, storielle, buffonate ed altro. Invece, no ! Proprio loro dovevano perseguitarlo, malgrado i rimproveri e le sculacciate delle mamme. E Peppe, considerando ciò, non poteva trattenere le lacrime che, insistenti, gli rigavano le guance rugose.
Anche quel giorno, come sempre, la solita masnada di monelli lo accolse a ciottoli e lo beffeggiò. Peppe, col pianto agli occhi, brandì il bastone e lo fece volteggiare nell’aria, se non altro per impressionarli. Ma quel giorno un fatto nuovo si verificò : un esile fanciullo, che assisteva alla triste scena, si lanciò tra quei monelli e, acceso il volto di collera, prese a gridare :
“Lasciatelo in pace ! Che vi ha fatto per maltrattarlo così ? Non vi vergognate ? Che direste se qualcuno trattasse allo stesso modo i vostri nonni ? Tornate a giocare, lasciatelo stare !”.
Quelli abbassarono gravi le testine e sembrarono finalmente comprendere tutto il male che facevano a quel vecchietto. Quindi, in silenzio, si allontanarono.
Peppe, dal canto suo, con gli occhietti sbarrati, luccicanti di pianto, guardava imbambolato quel piccolo, mentre il cuore gli si gonfiava di tenerezza. Poi gli si avvicinò, con passo malfermo, lo prese per il braccio e lo condusse, gelosamente, come un tesoro, presso un piccolo muro mezzo diroccato e si sedettero.
Peppe scoppiò in singhiozzi e si curvò a baciare, con disperazione quasi, le manine del ragazzo coprendole di calde lacrime. Il ragazzo lo lasciò sfogare, poi disse :
“Andiamo Peppe, non piangere ! Vedrai che non ti daranno più fastidio. Devi perdonarli, sai ! Non sono cattivi : tutti noi bimbi non siamo cattivi. E’ che spesso non ci rendiamo conto del male che facciamo”.
Peppe lo guardava senza poter dire qualcosa. Infine gli riuscì di chiedere :
“Come ti chiami ?”
“Antonio. Ma tutti mi chiamano Tonino. E’ più bello, non ti pare ?”
“Certo Tonino. E quanti anni hai ?”
“Nove. Sono già un omino !” - Peppe annuì .
“Ed ora promettimi di non stare triste. Domattina aspettami qui : ti porterò qualcosa da mangiare. Arrivederci Peppe”.
“Arrivederci Tonino. E che Iddio ti ricompensi !”
Tonino sorrise e si allontanò.
Certo, ormai Peppe non doveva stare triste : Tonino sarebbe stata la sua gioia, il suo sorriso, la sua luce !
Levò gli occhi al Cielo ed esclamò, più col cuore che con la bocca :
“Ti ringrazio mio Dio !”.
STORIA DI NINO
Racconto di Lucio Causo
Nino, non aveva mai posseduto un pezzetto di terra, neppure un piccolo orto, che quasi tutti nel paese possedevano dietro casa. Eppure diceva che possedeva tutta la terra; che la terra era sua e del Signore. Non era pazzo, Nino, anche se nel paese tutti lo consideravano tale e come tale lo trattavano, con pietosa condiscendenza. Il suo torto era quello di amare troppo la terra, tanto da confonderla con l’essenza stessa della vita. Spesso, i contadini, tornando dal lavoro dei campi, lo incontravano lungo i sentieri, intento a scrutare la terra al di là dei muretti a secco. Talvolta, nei nebbiosi crepuscoli autunnali, si poteva vederlo seduto sull’ultimo muretto del paese a contemplare la campagna con gli alberi senza foglie, mentre la terra si preparava il suo letto per l’inverno. Nino era felice che le foglie cadessero, quasi approntassero una calda coperta per lui e per la terra.
“Tutto ritorna alla terra, ed un giorno anche io ritornerò alla terra”, diceva.
Non dava fastidio, Nino, se lo si lasciava andare liberamente in giro per la campagna. E, d’altronde a nessuno era mai venuto in mente di scacciarlo; era troppo innocuo, ed anche servizievole. Non era raro, d’estate, durante i caldi vespri di scirocco, trovarlo seduto sulla soglia di una casa, con tra le mani una scodella di legumi, che divorava avidamente prima di andarsene a trascorrere la notte in campagna. A volte, gli davano da mangiare perché poi andasse a tenere lontani i ladri notturni dagli alberi di frutta sparsi nei campi. Ed era felice, Nino, di passare lunghe e lunghe ore a sentir respirare tiepida e vasta la notte, o di fare il controcanto ai grilli, o di contemplare, alte nel cielo, le costellazioni.
Ma un giorno tutto ciò finì. L’autunno aveva già accorciato le giornate. I giovani avevano smesso di andarsene di notte in giro a fare le serenate. La terra era esausta e solo le parti dei campi coltivate a frutteto erano in pieno rigoglio.
La voce si sparse all’improvviso, assurda e prepotente.
“Nino ruba la frutta nei campi…. Questa mattina gli alberi di Rocco Pignata erano tutti senza pere… Non ci sono più frutti sugli alberi di Pippi Nestola… Nino ruba… Bisogna tenerlo lontano dai campi…”.
In verità, nessuno poteva giurare che fosse stato proprio Nino a rubare la frutta. Nessuno poteva avere questa certezza, perché nessuno l’aveva visto sugli alberi di notte a raccogliere pere, mele ed altro. Perché non si era pensato, più semplicemente, a dei ladri? Ma era tanto comodo incolpare Nino che se ne stava sempre in giro per i campi! Comunque fosse, una volta accennata, la voce conquistò tutto il paese e Nino l’udiva con incredula perplessità, guardando ora questo, ora quello con l’espressione di un cane ingiustamente bastonato. Perché dicevano questo? Perché lo scacciavano se si avvicinava alle campagne? Non capivano che lontano dalla terra non poteva vivere? Come poteva rubare alla sua terra?
Qualcuno cominciò a minacciarlo: “Stai lontano dai campi, Nino, se non vuoi finire male!”.
Un suo lontano parente gli gridò in faccia: “Non mettere più piede nella mia campagna, Nino, ricordalo!”. E siccome i furti continuavano, qualche malpensante suggerì ai contadini di seguirlo la notte quando s’avviava verso i campi.
Una mattina, Vito Coronese ed altri contadini lo fermarono in piazza. Lo presero per le braccia e gli chiesero con voce minacciosa:
“Dove sei stato questa notte, Nino?… Hai rubato nei nostri campi?… Bada che potremmo perdere la pazienza!”.
Ma Nino non capiva, li guardava spaventato con quegli strani occhi di cane bastonato.
In paese erano diventati improvvisamente cattivi e più d’uno se ne andava, la notte, a far la guardia armato nei campi. Nino si sentiva come un animale in gabbia. Li odiava tutti, ma non voleva arrendersi.
Una sera, umida e silenziosa, Nino si avviò fuori del paese, verso l’aperta campagna. I lumi si spegnevano ad uno ad uno nelle case. Sotto il chiarore della pallida luna, appena velata, Nino si sentiva rinascere sentendo gli odori della terra umida di rugiada, delle foglie bagnate e della frutta matura. Nella calma serale gli sembrava di sentire il profondo respiro della terra.
A un tratto si fermò, si chinò sulla terra e vi accostò la guancia come a sentirne il fremito del respiro. Le sue palme aderirono, con voluttà, nella molle terra viva. Fu quando si rialzò per proseguire verso il casotto di Tore Matinese che un duro richiamo gli colpì le orecchie:
“Chi è là?… Fermo… fermo!”.
Nino sentì un’onda calda salirgli dai piedi fino alla testa. Non sapeva che fare; si sentì perso.
Fece per muoversi, ma un’altra voce ripeté più dura: “Fermo…fermo…non ti muovere!”.
Si mosse, cercò di scappare via, verso gli alberi amici per nascondersi. Poi un’immensa fiammata gli investì gli occhi, un forte boato gli urtò la testa… un liquido caldo gli sgorgò dal capo.
Si sentì attrarre dalla terra umida e lentamente, dolcemente cadde su di essa.
L’uomo, col fucile ancora caldo in una mano, rivoltò il corpo esanime di Nino, caduto a pancia in giù. “E’ Nino… lo sapevo”, disse agli altri contadini arrivati sul posto in tutta fretta.
“Era lui il ladro. Ma ora ha finito di rubare…”, aggiunse, con un ghigno sulla bocca.
Guardarono le mani di Nino: erano disperatamente chiuse. Quei pugni, serrati con forza spasmodica, racchiudevano, ognuno, una manciata di terra.